La basilica di Santa Croce è strettamente legata alla presenza dei Gesuiti a Cagliari. Fu il cagliaritano Padre Pietro Spiga, primo gesuita sardo, ritornato nell’isola da Lovanio non solo a causa della sua salute malferma ma soprattutto per condurvi pienamente l’attività ministeriale propria della Compagnia, a spianare la strada all’arrivo dei Gesuiti in città. La presenza a Cagliari di Padre Spiga è documentata dal mese di maggio del 1557. Dopo una breve permanenza presso l’erigendo collegio sassarese il religioso, su richiesta del viceré, dei giudici della Reale Udienza e dei Consiglieri della città di Cagliari, i quali misero anche a disposizione della Compagnia la somma di 500 libre di rendita annua perpetua per dare inizio al Collegio cagliaritano, fu nuovamente trasferito nel capoluogo isolano dove rimase, spendendo infaticabilmente tutte le sue forze nella predicazione, nelle confessioni, nell’aiuto dei moribondi, nella visita ai carcerati e agli ammalati e in tutti gli altri ministeri propri della Compagnia, fino al giorno della sua morte, avvenuta l’8 dicembre del 1594.

Da una lettera del 1558 sappiamo che il religioso, tra i tanti impegni pastorali, ogni quindici giorni teneva una sorta di meditazioni spirituali agli adepti della Confraternita di S. Maria del Monte della Pietà all’interno della chiesa di Santa Croce. Questa prima documentazione della chiesa preesistente a quella attuale induce a ipotizzare che l’edificio non fu edificato sulle rovine dell’antica sinagoga ebraica ma che, almeno in un primo periodo, prima cioè che i Gesuiti l’ampliassero e la trasformassero radicalmente non fosse altro che la stessa sinagoga riconsacrata al culto cattolico. Queste trasformazioni erano un fatto abbastanza comune nei territori spagnoli in questo periodo di persecuzioni religiose, così come lo era, in casi del genere, l’intitolazione alla Santa Croce delle ex sinagoghe ed ex moschee.

Al riguardo è opportuno segnalare che anche nell’atto pubblico di fondazione del Collegio di Cagliari, rogato in data 28 novembre del 1565 e sottoscritto fra la Città e il Collegio medesimo, rappresentato dal suo primo rettore, il P. Giorgio Passiu è detto che «fuit eis pro dicta Collegii fundatione incipienda data et assignata Ecclesia S.tae Crucis in dicta et praesenti Civitate plurimis abhinc annis constructa et edificata; cui pro ampliatione dicti Collegii subinde fuerunt adiunctae et applicatae domus necessariae».

L’antica sinagoga aveva orientamento Est-Ovest, cioè con l’asse maggiore ortogonale rispetto a quello dell’attuale chiesa e ingresso dalla via dei Giudei, ora via Corte d’Appello. Tale ricostruzione, già ipotizzata nel 1983 al Convegno sul Barocco in Sardegna, ha trovato un riscontro oggettivo nei risultati della campagna di scavo archeologico condotta nel 2005 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Cagliari e Oristano: sotto il pavimento ottocentesco, in occasione dell’ultimo intervento di restauro della chiesa conclusosi nel 2007, l’indagine archeologica ha posto in evidenza i resti di due muri visibili per una lunghezza di m. 9 circa, quello adiacente al presbiterio e di m. 7,20, quello più a sud e con orientamento Est-Ovest. Le due strutture per materiali e tecnica costruttiva si sono rivelate pertinenti a un unico edificio che può essere identificato proprio nell’antica sinagoga ebraica.

Il nucleo iniziale, che ospitò gli alloggi dei padri presso la chiesa di Santa Croce, fu acquistato grazie all’ingente somma di quasi 2.000 lire cagliaresi che il viceré, l’inquisitore, un membro del Consiglio e alcuni notabili della città raccolsero attraverso varie collette.

La prima comunità gesuitica, giunta a Cagliari il 7 novembre del 1564, contava dieci religiosi condotti in Sardegna dal rettore del Collegio di Sassari, P. Baldassarre Piñas al suo rientro da Roma, dove si era recato per la professione dei quattro voti. Superiore della comunità fu nominato un altro sardo, il Padre Giorgio Passiu di Oristano.

A sovrintendere ai lavori di riattamento e ampliamento del primo collegio fu inviato da Roma in qualità di architetto il fratello gesuita ticinese Gian Domenico de Verdina il quale dovette interrompere questo suo primo soggiorno a Cagliari alla fine del mese di maggio 1566. Sappiamo altresì che il de Verdina era coadiuvato da un altro gesuita fratel Gavino Crisostomo Cayna che nel 1568 è presente nel Collegio di Sassari con la mansione di “faber murarius”. Formatosi alla scuola del de Verdina, sarà lui, probabilmente, una delle figure che sovrintenderanno nell’ultimo ventennio del XVI secolo alla direzione dei lavori nei cantieri gesuitici sardi.

Nel 1567 ritroviamo nuovamente impegnato nel Collegio di Santa Croce il de Verdina, il quale alternava la sua attività fra Cagliari e Sassari.

Nel 1569 il Padre Provinciale Antonio Cordesses, in una lettera al P. Generale Borgia, lamenta come la chiesa di Santa Croce fosse di piccole dimensioni, e non poteva essere allungata avendo la strada pubblica da un lato e il muro dall’altro, inoltre un ampliamento non l’avrebbe resa comunque capiente per le proprie necessità.
A quella data sappiamo che il Collegio non era stato ancora interessato da imponenti opere di ampliamento.

Nel 1573 è ribadita la necessità di avere una chiesa capace di contenere un buon numero di fedeli anche perché altre Congregazioni religiose presenti in città avevano tentato di sottrarre alla Compagnia l’incarico, affidato ai gesuiti fin dal loro arrivo in città, di predicare nei periodi liturgici di quaresima e avvento nella Cattedrale e da questa predicazione derivava al Collegio un gran credito presso il popolo.

È chiaro, dunque, che a quella data l’edificio chiesastico officiato dai Gesuiti di Santa Croce, poco capace come auditorio pubblico, era ancora costituito dalla chiesa primigenia.

L’avvio della fabbrica per la nuova chiesa, si desume da un documento del 1596, quando si rende necessaria la demolizione dell’adiacente ala del Collegio in cui si trovavano gli alloggi dei religiosi, che determinò per i Padri l’esigenza di raggiungere le abitazioni situate nell’altro lato della strada con un “ponte”.
Per quel che riguarda la travagliata vicenda costruttiva della nuova chiesa di Santa Croce, è oggi possibile documentare una sua precisa cronologia di riferimento. La piccola chiesa era gravata da determinate condizioni sull’ufficiatura poste dall’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues di Castellejo nel 1565 quando la affidò ai Gesuiti. Delle quattro la più gravosa era certamente costituita dall’impossibilità di seppellire nella chiesa i benefattori del Collegio se questi non fossero stati prelati insigni.

Per ovviare all’inconveniente dei vincoli imposti dall’arcivescovo e per paura che edificando il nuovo edificio sull’area occupata dalla vecchia chiesa tali limitazioni si trasferissero di diritto sulla nuova fabbrica, a partire dal 1587 i Gesuiti si impegnarono nella ricerca di un nuovo sito. A causa dei pareri contrastanti e dell’assenza in loco di un esperto in architettura, quello stesso anno il rettore del Collegio di Santa Croce scrive a Roma chiedendo l’invio di “uno pratico in cose di architettura e massimo negli edifici della nostra Compagnia”.

Sarà il vice provinciale Padre Melchiorre de San Juan a segnalare al Generale Claudio Acquaviva, in quello stesso anno, il sito più appropriato per l’edificazione della “yglesia nueva”: l’area donata ai gesuiti dal conte di Quirra.

Nel 1594 risulta che il cantiere della chiesa nel nuovo sito era stato avviato ma a causa dell’eccessivo impegno economico, che per le sole fondamenta avrebbe comportato una spesa di quasi 5.000 ducati d’oro, forse già nel 1593 era stato interrotto e dirottato nel sito dell’antica chiesa di Santa Croce. Per questi lavori si fa un chiaro riferimento alla presenza nel cantiere cagliaritano di due architetti che, nella loro veste di esperti, operano impartendo precise direttive. Potrebbe trattarsi del già noto fratel Gavino Crisostomo Cayna e del Padre Luca Cañolacho: quest’ultimo, tra la fine di ottobre e il principio di novembre del 1594, si reca a Roma per seguire studi e pratica di architettura.

Intanto, nel mese di novembre di quello stesso anno, viene posata la prima pietra della nuova chiesa di Santa Croce. I lavori procedono a rilento, nonostante l’ingente lascito della nobildonna Anna Brondo e del legato di 3.000 lire stabilito dal Parlamento sardo, almeno fino alla fine del 1596 anno in cui, probabilmente, l’arcivescovo di Cagliari, Alfonso Lasso Sedeño, affrancò la vecchia chiesa dalle restrizioni imposte dal suo predecessore mons. Parragues di Castillejo.

Nel 1596 si da avvio ai lavori della nuova chiesa e si rende necessario abbattere quella vecchia in modo da poterla inglobare nel nuovo e più spazioso edificio chiesastico.

I lavori subiscono un’accelerata andando a conclusione in pochi anni, se non in facciata almeno nelle parti strutturali più importanti, cosicché già nel 1603 i resti mortali del P. Pietro Spiga e di altri quattro confratelli, fra cui il primo rettore del Collegio, Padre Giorgio Passiu, vengono traslati nella nuova chiesa.

Il 24 gennaio 2005 nello scavo archeologico curato dalla Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano sono state rinvenute tre cassette-reliquiario. I reliquiari deposti direttamente nel terreno, ai piedi del pilastro di destra della cappella dei Martiri Turritani (o cappella Brunengo), risultano molto danneggiati dall’umidità ma conservano, ancora ben visibile, il loro prezioso rivestimento in seta liscia naturale riccamente decorata con piccoli chiodi a borchia, che in alcuni punti sembrano formare un motivo a fioroni. Il tutto è rifasciato lungo i bordi e nelle parti centrali da galloni in fili d’oro ritorto. Le ossa, infine, vennero protette da un prezioso tessuto natté, cioè un gros a due fili di ordito. Le tre cassette per la loro tipologia, ascrivibile proprio al modello, che di lì a poco si diffonde a seguito dell’“Invención de los cuerpos santos” e, soprattutto, per la loro preziosità e unicità nell’ambito di tutte le deposizioni messe in luce sotto il pavimento della Basilica Mauriziana, sono probabilmente da riferire ai resti mortali dei cinque gesuiti traslati nella nuova chiesa nel 1603 (P. Pietro Spiga, P. Giorgio Passiu, P. Juan Giles, P. Francisco Berno e P. Antonio Montano). De poste inizialmente “de baxo de un altar”, come recita l’elogio e forse non a caso sotto quello che anticamente era dedicato a Santa Maria Maggiore, magari in una nicchia ben visibile dove soprattutto il Padre Spiga era venerato come un “Santo Varon, y Siervo del Señor”, le cassette vennero probabilmente interrate sotto il pavimento, nei pressi della medesima cappella in un momento successivo. Forse negli anni ‘30 del XVII secolo all’atto della realizzazione dell’altare marmoreo che ospita la pala dei Martiri Turritani attribuita allo stesso periodo, quando la nobile famiglia cagliaritana dei Brunengo acquisisce lo jus patronatus della cappella, o addirittura nella metà del XVIII secolo quando, per conferire all’aula una maggiore uniformità stilistica, l’altare secentesco fu ammodernato con l’inserimento di un paliotto a vasca trapezoidale.

Nella chiesa gesuitica di Santa Croce ritroviamo gran parte degli elementi strutturali canonici dell’ideologia controriformata gesuitica: l’aula mononavata; il presbiterio quadrangolare (almeno così era prima della ristrutturazione mauriziana ottocentesca) e poco profondo perché la comunità gesuitica non pratica le preghiere e i canti corali; il cornicione fortemente aggettante, elemento unificante dello spazio interno e le tre cappelle per lato che assumono quanto al numero un preciso senso iconologico. In questo contesto anche la luce diffusa dalle tre grandi finestre per lato che s’aprono alle spalle degli altari laterali, adempie all’esigenza – pratica e simbolica al tempo stesso – di unificazione dello spazio e di assicurare all’aula una forte luminosità per rendere perfettamente visibile ogni fase del rito agli astanti. Di questi ultimi si vuole in tal modo tenere costantemente desta l’attenzione e si promuove la partecipazione cosciente; così pure si opera al fine di raggiungere un’acustica perfetta, funzionale all’efficacia della predicazione. Questa interpretazione architettonica che è propria, nell’essenzialità della struttura e nel rigore formale, ai primi modelli chiesastici gesuitici, piega la spazialità interna dell’edificio alle esigenze poste dal Concilio di Trento. Infatti, essa accentua la larghezza dell’aula, destinata ormai alla devozione collettiva e alla predicazione dal pulpito a un gran numero di fedeli, riducendo a semplici nicchie di fiancheggiamento le cappelle laterali.

Anche il prospetto, diviso in due ordini raccordati da volute, sembrerebbe derivato da modelli manieristici romani.

Dobbiamo ritenere che ad alcune di queste soluzioni formali non fu estraneo il Padre Luca Cañolacho il cui richiamo nell’isola fu sollecitato a più riprese dal vice provinciale de Olivencia nel corso del 1595. La sua presenza è segnalata nel Collegio di Cagliari dal 1600 quando ricopre l’incarico di “Praefectus fabricae”.

La chiesa di Santa Croce seguirà le alterne vicende dei Gesuiti a Cagliari fino al 1773 quando con il breve apostolico Dominus ac Redemptor il papa Clemente XIV decise di sopprimere la Compagnia di Gesù.

La chiesa divenne dunque proprietà statale fino a quando, nel 1809, il re Vittorio Emanuele I assegnò l’edificio all’Ordine cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro, e l’elevò al rango di basilica magistrale. Si deve a questo periodo l’assetto attuale della basilica con la realizzazione dell’abside e la decorazione con le pitture murali. L’edificio subì i danni dei pesanti bombardamenti della seconda guerra mondiale sulla città nel 1943 e fu riparata nel 1946.

Attualmente la basilica è di proprietà della Fondazione Ordine Mauriziano istituita con decreto legge 277/2004, convertito in legge 4/2005, che è erede del patrimonio dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, nato nel 1573 per volere di Emanuele Filiberto duca di Savoia dalla fusione dell’Ordine Cavalleresco e Religioso di san Maurizio (Ripaille – Chablais, 1434) con l’Ordine per l’assistenza ai Lebbrosi di san Lazzaro (Gerusalemme, 1090).

Dopo un lungo periodo di chiusura al culto e dopo un intervento di restauro la basilica è stata riaperta al culto e affidata al clero diocesano.