Uno strumento pastorale moderno, dalle radici tradizionali

Fra territorialità e personalità

P ensando alla parrocchia quale strumento dell’azione pastorale della Chiesa, viene istintivo un riferimento alla territorialità. Tale è infatti l’aspetto che la tradizione ci ha consegnato: la Chiesa, fin dai primi secoli della sua storia ha adottato le strutture amministrative civili dell’Impero romano, considerandole un valido strumento per il consolidamento dell’evangelizzazione¹; ha pertanto fatto proprio l’istituto della parrocchia, che in origine designava nel diritto pubblico romano del III-IV sec. un’organizzazione territoriale di rango provinciale, governata da un alto funzionario col titolo di vicario. Da principio, nel diritto ecclesiastico si utilizzò tale espressione per designare il territorio vasto amministrato da un vescovo, arrivando poi nel corso dei secoli a riservarne l’uso per indicare la circoscrizione locale in cui è suddivisa la diocesi². Tale è appunto la concezione che emerge al Concilio di Trento³ e che si manterrà sostanzialmente immutata nei secoli successivi, fino a confluire nel Codex Iuris Canonici del 1917, che recependo integralmente il dettato conciliare, definirà la parrocchia quale una unità territoriale frutto della suddivisione della diocesi, cui è assegnata una chiesa, un ufficio ecclesiastico, una porzione del popolo, sotto la supervisione di un pastore⁴.
Già però a partire dagli anni ‘40 del XX secolo, mutate situazioni sociali e nuove esigenze pastorali hanno spinto alcuni vescovi a sperimentare il superamento della dimensione territoriale e statica dell’organizzazione ecclesiastica fondata sulla parrocchia, per definire nuovi strumenti più flessibili e basati sull’appartenenza personale dei fedeli. È il caso ad esempio della Mission de France, istituita fin dal 1941 dal card. Suhard per l’evangelizzazione del mondo del lavoro ed eretta in prelatura dalla Santa Sede nel 1954: la peculiarità di questa istituzione è proprio quella di non servire i fedeli di un particolare territorio, bensì i sacerdoti e i laici delle Comunità della Missione di Francia, presenti nel territorio nazionale⁵.
Sarà con il Concilio Vaticano II che la riflessione pastorale e teologica sulla parrocchia verrà portata alla sua definitiva maturazione. Senza rompere con la tradizione, il Concilio non ha infatti voluto negare né il carattere istituzionale della parrocchia, né l’elemento della territorialità, ma nel contesto di una maggiore valorizzazione dell’ecclesiologia misterica della Chiesa quale Corpo mistico di Cristo, ne ha sottolineato il carattere teologico⁶. Il testo conciliare più significativo al riguardo è il n. 42 della Costituzione sulla Liturgia, che recita: «Poiché nella sua Chiesa il vescovo non può presiedere personalmente sempre e ovunque l’intero suo gregge, deve costituire necessariamente dei gruppi di fedeli, tra cui hanno un posto preminente le parrocchie organizzate localmente e poste sotto la guida di un pastore che fa le veci del vescovo: esse infatti rappresentano in certo modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra. Per questo motivo la vita liturgica della parrocchia e il suo legame con il vescovo devono essere coltivati nell’animo e nell’azione dei fedeli e del clero; e bisogna fare in modo che il senso della comunità parrocchiale fiorisca soprattutto nella celebrazione comunitaria della messa domenicale»⁷.
Ciò che emerge dal testo è sicuramente la centralità che la dimensione comunitaria assume nella caratterizzazione della parrocchia: non un semplice territorio in cui vengono svolti servizi religiosi, ma una comunità di persone fondata sulla fede in Cristo, sulla carità e sulla celebrazione eucaristica, riunita attorno al sacerdote quale rappresentante del Vescovo, e dunque una vera Chiesa locale che partecipa alla pienezza della realtà ecclesiale che si ha nella dimensione diocesana ed universale.
Lungi dall’essere una innovazione teologica, la riflessione sulla parrocchia proposta dal Concilio Vaticano II ripropone la tradizione più antica ed autentica, che ben si comprende considerando l’etimologia stessa del termine e l’uso che di esso viene fatto nella Sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa antica. Il termine latino parœcia riprende il greco paroikia, che va ad indicare la condizione delle persone straniere, esuli fra i cittadini di un luogo. In tal senso Abramo è paroikos in Egitto, come pure lo sono i figli di Giacobbe; gli ebrei del tempo di Gesù hanno la consapevolezza di essere una comunità di stranieri in cammino su questa Terra. La Lettera agli Ebrei, significativamente afferma «non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura»⁸; allo stesso modo la prima lettera di Pietro «Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all’anima»⁹; san Clemente Romano, pontefice attorno all’anno 100, così scrive nella sua celebre lettera ai Corinzi «La Chiesa di Dio esule a Roma alla Chiesa di Dio esule a Corinto»10. Si potrebbe continuare a lungo, ma tutti i dati confermano come il senso etimologico e biblico del termine parrocchia, indichino la comunità di persone che credono in Cristo e vivono in questo mondo come pellegrini, con la speranza di poter giungere un giorno alla vera e definitiva patria celeste11.
Con il Codex Juris Canonici del 1983, la riflessione teologica ed ecclesiologica riscoperta dal Concilio Vaticano II trova una adeguata espressione giuridica. Il can. 518 recita: «Come regola generale, la parrocchia sia territoriale, tale cioè che comprenda tutti i fedeli di un determinato territorio; dove però risulti opportuno, vengano costituite parrocchie personali, sulla base del rito, della lingua, della nazionalità dei fedeli appartenenti ad un territorio, oppure anche sulla base di altre precise motivazioni»12.
Il codice dunque, recependo la nozione teologica di parrocchia quale comunità di persone, legate soprattutto da vincoli di fede e di carità, piuttosto che dal solo dato geografico e territoriale, ha riconosciuto come una facoltà dell’ordinario diocesano di poter costituire comunità parrocchiali all’interno della giurisdizione della diocesi, per meglio agevolare la partecipazione alla vita spirituale di quei fedeli che per ragioni legate alla professione, alla lingua, alla nazionalità, o come nel nostro caso anche al rito, possono trarre un beneficio maggiore da una cura pastorale ad hoc, ritagliata attorno alle loro particolari esigenze, rispetto alla frequentazione delle rispettive parrocchie territoriali. Queste non cessano di certo di avere importanza, ed anzi vengono espressamente menzionate dal diritto quali le forme ordinarie dell’organizzazione pastorale; è tuttavia evidente che per il loro carattere geografico, esse si contraddistinguono per un’offerta spirituale generalista, che eviti cioè di schierarsi in modo sbilanciato verso una categoria di persone, o una peculiare sensibilità liturgica o pastorale, a scapito di altre13. Si può dire però che il punto di forza della parrocchia territoriale, ossia rivolgersi indistintamente a tutti i fedeli di un dato luogo, che esprimono nella loro pluralità di situazioni e di caratterizzazioni la ricchezza della varietà del Popolo di Dio, unificandoli attorno all’unica mensa dell’unico Signore Gesù Cristo, possa talvolta costituirne anche il limite, laddove l’uniformità diventi un limite nella valorizzazione dei carismi e delle legittime particolarità, che lo stesso Concilio Vaticano II ha riconosciuto come prioritaria14. Si comprende alla luce di questa ansia pastorale, finalizzata a porre il bene delle anime al vertice delle priorità della Chiesa, il senso della costituzione, oggi, di una parrocchia personale. 

La parrocchia personale e i suoi fedeli

Cos’è dunque una parrocchia personale? E’ un istituto giuridico canonico relativamente recente, previsto dal can. 518 del CJC(1983), sorto per valorizzare pastoralmente talune realtà specifiche od esigenze spirituali presenti nella comunità dei fedeli: sono tipici esempi di tali specificità, l’erezione di parrocchie per servire pastoralmente particolari gruppi linguistici o nazionali di fedeli residenti in paesi stranieri. A partire dal Motu Proprio Summorum Pontificum del Santo Padre Benedetto XVI del 2007, tale possibilità è stata espressamente prevista anche per l’utilità spirituale di quei fedeli legati alla forma liturgica tradizionale del rito romano.
La parrocchia personale gode degli stessi diritti ed è tenuta ai medesimi doveri di tutte le parrocchie della diocesi in cui viene costituita, fatte salve le sue particolari peculiarità.
A scanso di qualsiasi possibile equivoco, va ribadito che il termine “personale” che la contraddistingue contrapponendola alla sua omologa “territoriale”, in nessun caso fa riferimento ad un privilegio legato alla persona del parroco, o ad una sua personale proprietà, come se fosse un titolo onorifico ad personam. Il termine piuttosto descrive la peculiare forma di affiliazione di cui godono i fedeli, i quali appartengono ad essa non perché residenti in un particolare territorio, ma perché si riconoscono “personalmente” nei servizi pastorali che la parrocchia offre alla comunità.
L’affiliazione dei fedeli è dunque realizzata in modo libero e spontaneo da parte dei fedeli stessi, i quali riconoscendosi ed identificandosi nella comunità parrocchiale e desiderando aderire alla propria offerta pastorale, ne risultano incorporati dal fatto stesso di partecipare attivamente alle celebrazioni liturgiche e alle varie attività pastorali, senza bisogno di ulteriori formalità. L’appartenenza dei fedeli anche alle rispettive comunità parrocchiali territoriali non viene annullata né sostituita dalla parrocchia personale: il fedele non è tenuto a dare alcuna comunicazione alla parrocchia territoriale di provenienza e può avvalersi dei servizi pastorali offerti da entrambe le parrocchie, in un regime per così dire di “doppia giurisdizione”15.
La parrocchia personale è dunque un istituto giuridico versatile e flessibile, aperto a tutti coloro che appartengono alla diocesi e che si identificano nella liturgia romana, celebrata nella sua forma tradizionale.

Breve esame di alcune possibili obiezioni

Una possibile obiezione alla costituzione di una parrocchia personale riservata ai fedeli legati alla celebrazione della liturgia nella sua forma tradizionale, è che possa essere intesa come una forma di ghettizzazione dei fedeli, “utile” per così dire ad allontanare dalle varie parrocchie quei soggetti percepiti come “scomodi”, insofferenti alle dinamiche pastorali e celebrative ordinarie, poco integrati nel tessuto comunitario, confinandoli in una sorta di “riserva indiana” ove arrecare il minor disturbo possibile. D’altra parte, non è affatto da escludere anche la biasimevole tendenza di alcuni fedeli tradizionalisti di isolarsi volontariamente dal contesto ecclesiale, autoconfinandosi in forme più o meno dorate di esilio, dove vivere dimensioni artefatte e soggettive del cattolicesimo, nelle quali scegliere di praticare e considerare solo taluni aspetti più congeniali, rifiutando o non prendendo in considerazione gli altri.
Un discorso che voglia essere serio e non idealistico, non può esimersi dal considerare simili problematiche come possibili. Occorre però anche affrontare tali situazioni con un atteggiamento propositivo, nel desiderio di poter lavorare per migliorare eventuali criticità e integrare pienamente
tutti i fedeli nella comunione ecclesiale, valorizzando tutti i carismi e tutte le sensibilità, nel pieno e filiale rispetto della gerarchia e dei pastori. In questo contesto la parrocchia personale può essere considerata come uno strumento prezioso per realizzare una partecipazione all’azione pastorale più motivata e dinamica rispetto a quella di una parrocchia territoriale; in particolare i fedeli legati alla tradizione, possono trovare un’offerta capace di essere molto gratificante, nei confronti delle loro aspettative e delle loro esigenze spirituali, al tempo stesso capace di cementare una forma di vera comunitarietà, che è la base della vita della Chiesa, impensabile con la mera frequentazione di centri di messa in occasione delle sole funzioni. La presenza di un parroco e il rapporto di paternità pastorale che egli può instaurare con il proprio gregge, può rinfocolare e stimolare l’indispensabile spirito di responsabilità nei fedeli, i quali hanno il dovere di attuare la propria vita cristiana in modo integrale, senza prescindere da una indispensabile dimensione comunitaria ed ecclesiale della fede, accompagnata dalla costante pratica della carità, scongiurando così il pericolo di derive superficiali, basate su forme di frequentazione solo liturgica.

Un’altra possibile obiezione nei confronti della parrocchia personale, potrebbe provenire da quei fedeli che si considerano “puristi”, che tendono a storcere il naso di fronte a tutte le forme di introduzione di elementi moderni nella tradizione. Ovviamente, occorre evitare di fare di tutte le erbe un fascio. Talvolta si assiste al tentativo (non sempre in buona fede) di ibridare arbitrariamente i riti liturgici tradizionali con forme celebrative, testi o prassi afferenti alla liturgia moderna, nel tentativo di realizzare una certa “pace liturgica” tra le varie forme del rito romano, se non per mostrarsi ben disposti nei confronti delle autorità ecclesiastiche. Altre volte norme liturgiche vigenti per la forma moderna del rito, vengono applicate creativamente alla forma tradizionale, dando luogo a singolari fattispecie antistoriche ed anacronistiche. Sebbene il Motu Proprio Summorum Pontificum auspichi che le due forme celebrative possano con la prassi trarre mutuo giovamento, va detto che ciò non può mai in nessun caso derivare da private e temerarie iniziative provenienti dall’estro di singoli celebranti o peggio, da gruppi di fedeli. Certe intromissioni di “modernità” vanno giustamente stigmatizzate, non tanto (o non solo) perché siano sconvenienti in sé, ma soprattutto perché se applicate ad una dimensione rituale che per incontestabili evidenze storiche si è ormai codificata e fissata in una forma liturgica precisa, hanno come inevitabile conseguenza di tramutarla in una forma spuria, inautentica, disarmonica, priva di coerenza, ed in ultima analisi, inaccettabile. E’ già la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II e promulgata da san Paolo VI ad essere stata il frutto di un processo di evoluzione della forma rituale precedente. Introdurre elementi di “modernità” nel rito antico per farlo “evolvere”, non avrebbe alcun senso: nella storia è già accaduto un simile processo e il tradizionalismo è emerso per reazione. Non si capisce lo scopo di introdurre una bizzarra forma di ciclicità storica, se si ammette la buona fede e la volontà di tutelare il patrimonio liturgico tradizionale.

A ben vedere però la parrocchia personale non è riferibile ad una delle fattispecie ricordate poc’anzi. Essa è uno strumento moderno, indubbiamente, ma può essere utilizzato in un contesto e per una azione pastorale tradizionali. Come è possibile?
Comprenderlo significa fare chiarezza e scongiurare un errore comune sul concetto di “tradizione”, identificandola in “ciò che si è sempre fatto”. La tradizione è senza alcun dubbio una consegna, una trasmissione di un valore immutabile, nel corso della storia: è anzitutto la trasmissione della Verità eterna, fuori dalle dinamiche del tempo e dello spazio, non suscettibile di poter essere mutata a seconda delle circostanze, delle convenienze, delle influenze che di volta in volta possono subentrare. In una parola, è Cristo stesso. E poiché la tradizione è Cristo, tradizionale è anche la ripetizione di ciò che egli ha insegnato, ha compiuto, ha celebrato. Per questo motivo la Chiesa cattolica è poggiata sulla tradizione e la liturgia è l’esempio più fulgido di tradizione in atto. Ma poiché la tradizione realizza la presenza dell’eternità nel mondo, fa inevitabilmente i conti con una realtà (questa sì) mutevole e contingente, sottoposta al processo evolutivo del divenire. Di fronte a questa considerazione, “fare ciò che si è sempre fatto” presupporrebbe come premessa che pure il mondo, verso cui la tradizione si rivolge, rimanga sempre identico a sé stesso. Questo non è tuttavia possibile, ma è anche vero che se pensiamo alla storia bimillenaria della Chiesa, possiamo notare che il processo del divenire del mondo, della società, della cultura, non ha avuto un andamento costante e progressivo nel corso dei secoli.
Anzi, sembra quasi che i mutamenti avvenuti nel solo Novecento, ma a ben vedere si potrebbe dire nella sola seconda metà del Novecento, superino in entità e in effetti, quelli intercorsi nei precedenti diciannove secoli, come se la storia avesse avuto un andamento lento e graduale, e di colpo una improvvisa impennata. Si potrebbero pensare molti esempi, ma basterebbe pensare ai soli effetti della tecnologizzazione di massa, la meccanizzazione, l’informatizzazione. La società, in
particolar modo quella rurale, prima della meccanizzazione di massa, viveva a dei ritmi e secondo dinamiche che sostanzialmente non erano mai mutate dall’epoca di Gesù: la famiglia, numerosa, patriarcale, unita, si radunava attorno al focolare, riceveva la saggezza e l’esperienza dagli anziani, i giovani erano educati alla comunione, alla condivisione, al sacrificio; i luoghi erano sempre gli stessi, si nasceva, si viveva, si lavorava e si moriva sempre nello stesso posto, raramente ci si trasferiva; la comunità locale era una vera comunità, fatta di persone “realmente connesse” tra di loro, legate da vincoli parentali, sociali, lavorativi, spirituali; la parrocchia era il centro della vita spirituale (ma anche sociale) della comunità, ne celebrava le nascite, gli eventi gioiosi, i lutti, il ritmo del lavoro nei campi, le tappe della crescita personale e spirituale, tutto coagulando e indirizzando verso Cristo, come motore e traguardo di tutto. Questa “vita” la aveva presente lo stesso Gesù, era l’ambiente che lui stesso frequentava, rappresentava lo stile di vita degli apostoli: le tematiche agresti, pastorali, contadine della predicazione di Cristo, rimandano all’immaginario di un mondo rurale, arcaico, tradizionale, che solo fino a pochi decenni fa era presente e vivido nella visione di tutti. Ciò che va però considerato, è che tuttavia il mondo è cambiato. Il ruolo dell’agricoltura nell’economia e dunque di una società rurale, si è notevolmente ridotto; la logica industriale e poi ancora quella del terziario, la meccanizzazione di massa, l’informatizzazione, hanno trasformato la società e i suoi stili di vita: oggi è normale nascere in un luogo, studiare in un altro, lavorare in un altro ancora, sposarsi e trasferirsi ancora altrove e così via. L’individuo ha assunto sempre più importanza a scapito della famiglia, che pure ha ridotto la propria dimensione, e soprattutto negli ultimi anni ha subito un’ulteriore trasformazione a causa del drammatico numero di separazioni e di divorzi che imperversano, con quello che ne consegue in termini di natalità, di educazione e gestione dei figli. Il mondo è talmente repentinamente
mutato, che l’immagine di Dio come Padre che ci descrive Gesù, associandola in analogia all’esempio a tutti più vicino e più immediato, potrebbe oggi non essere più comprensibile per molti, considerando la composizione attuale delle famiglie, in cui la figura del padre non è affatto una presenza scontata.
Questa situazione complessa è un dato di fatto con cui occorre avere a che fare, e sicuramente la soluzione non è quella di vituperare il presente (O tempora! O mores! Come avrebbe detto Cicerone) per idealizzare un passato come una mitica età dell’oro in cui tutto era perfetto e senza la quale nulla più ha senso. La tradizione non è quindi la nostalgia, che può a buon titolo essere considerata una sua degenerazione, un errore, di fronte all’incapacità di accettare la contingenza.
Questa digressione può aiutare a comprendere perché la parrocchia territoriale come principale forma della pastorale comunitaria sia rimasta tale per secoli senza bisogno di particolari innovazioni, finendo con il creare l’equivoco che la parrocchia non potesse essere altro che un territorio, quasi come se pensare il contrario fosse mettere in dubbio l’autorità del Concilio di Trento.
L’uomo vive nella storia, che è contingente e mutevole, ma è orientato nel suo cammino terreno verso Dio, eterno ed immutabile, guidato dalla fede, e nella Chiesa. Tramite la tradizione la Chiesa mantiene fisso lo sguardo sulla verità eterna, sugli immutabili principi di giustizia, consentendo ad essi di essere accessibili agli uomini di ogni epoca e condizione. A mutare, sono le epoche e le condizioni: il sarebbe assurdo ibernare la vita dell’uomo per non fargli subire il flusso del divenire storico, fossilizzandolo in un momento immutabile. A tal proposito, potrebbe essere utile pensare come in America alcune comunità religiose (ad esempio gli Amish) abbiano tentato appunto di fissare la storia impedendole di evolvere, in modo che la religione sia fenomenologicamente sempre la stessa: la riflessione sulle conseguenze pratiche, scongiura la seduzione di avventurarsi nella nostalgia.
La via della Chiesa alla tradizione non è quella di fissare un’epoca canonizzandola quale età dell’oro e vietando di cambiarla come se fosse un fermo immagine, una cartolina sbiadita in un album di ricordi (e questo, vale sia per chi idealizza il 700 o gli anni ‘50, ma anche per tutti quelli che non si rendono conto che sono finiti gli anni ‘70). La legge canonica quale strumento normativo della pastorale della Chiesa, ha da sempre avuto il ruolo di essere cinghia di trasmissione, mettendo in comunicazione i principi immutabili della legge divina, con le esigenze dell’uomo nel proprio momento storico. Il senso autentico dell’aggiornamento pastorale è quindi quello di tradurre la fedeltà piena ai principi immutabili della legge divina, senza alcuna forma di compromesso o di alterazione, alle mutevole forme contingenti della vita nel mondo.

La parrocchia personale rispetta pienamente questi criteri, che per usare un’espressione celeberrima nel contesto della pastorale italiana può essere definita “fedeltà a Dio e all’uomo”. Mantiene saldo il principio che la fede cristiana abbia una vocazione comunitaria ed ecclesiale, ma lo traduce in una forma più flessibile e più efficace, nel contesto di un mondo cambiato e con esigenze nuove.

¹ Cfr. J. DIAZ, Parrocchia, in NDDC, p. 750.

² Cfr. G. DAMIZIA, Parrocchia, in EC vol.9, c. 856.

³ Cfr. CONCILIO DI TRENTO, Sess. XXIV, Decr. de Reform., c. 13.

⁴ Cfr. CJC (1917), c. 216 §1.

⁵ Cfr. M. GUASCO, Preti operai, in DSC, p. 549.

⁶ Cfr. V. GROLLA, L’agire della Chiesa. Lineamenti di Teologia dell’azione pastorale, EMP, Padova 1995, p. 144.

⁷ Cfr. CONCILIO VATICANO II, Const. de Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 4 XII 1963, n. 42, in AAS 56 (1964), pp. 111-112.

⁸ Cfr. Eb 13, 14.

⁹ Cfr. 1Pt 2, 11.

10 Cfr. CLEMENTE ROMANO, Lettera ai Corinzi, in PG vol. 1, cc. 202-203

11 Cfr. V. GROLLA, L’agire della Chiesa, cit., pp. 138-139.

12 Cfr. CJC (1983), c. 518.

13 Cfr. V. GROLLA, L’agire della Chiesa, cit., p. 154-158.

14 Cfr. CONCILIO VATICANO II, Const. Dogm. de Ecclesia “Lumen gentium”, 21 XI 1964, n. 12, in AAS 57 (1965), pp. 16-17.

15 Cfr. F. ADERNÒ, Paroecia vera communitas, in Petrus, 9.6.2008.

Bibliografia

Fonti

La sacra Bibbia
Clemente Romano
Concilio di Trento, ecc riferimento a Denz Concilio Vaticano II, ecc
Codex juris canonici, ecc

Studi

ADERNÒ F., Paroecia vera communitas, in Petrus, 9.6.2008.
DAMIZIA G., Parrocchia, in EC vol.9, cc. 856-859.
DIAZ J., Parrocchia, in NDDC, pp. 750-758.
GROLLA V., L’agire della Chiesa. Lineamenti di Teologia dell’azione pastorale, EMP, Padova 1995
GUASCO M., Preti operai, in DSC, pp. 549-550.

Abbreviazioni

NDDC: CORRAL SALVADOR C. – DE PAOLIS V. – GHIRLANDA G. (A CURA DI), Nuovo Dizionario di Diritto Canonico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993.
DSC: ANDRESEN C. – DENZLER G. (A CURA DI), Dizionario storico del Cristianesimo, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992.
EC: PASCHINI P. (A CURA DI), Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano 1949-1954.
PG: MIGNE J. – P. (A CURA DI), Patrologiae cursus completus. Series græca, Parisiis 1857ss.
AAS: Acta Apostolicæ Sedis, Città del Vaticano 1909-2018.